La riscoperta di Tennessee Williams attraverso cinque atti unici. Intervista ad Andrea Piazza.
di Chiara Narciso
Parlami come la pioggia, in scena al Teatro Franco Parenti fino al 10 Novembre, è la resa teatrale di una ricerca appassionata del regista Andrea Piazza. A noi di Sik-Sik ha raccontato il processo di riscoperta di questi cinque atti unici, interpretati da Valentina Picello e Francesco Sferrazza Papa, dagli esordi fino alla realizzazione della scenografia.
Come è nato il progetto Parlami come la pioggia?
Tutto è partito proprio dall’aver trovato in maniera fortuita, attraverso una ricerca personale che stavo conducendo, cinque testi di Tennessee Williams. Si tratta di pezzi editi in Inghilterra e in America, ma mai arrivati in Italia. Questi atti unici sono tutti parte della collezione 41-46 e risalgono al periodo in cui Williams non era ancora noto nell’ambiente cinematografico. Leggendo le raccolte sono stato colpito dai cinque testi, che ruotavano attorno a dei rapporti uomo-donna. Seppur di natura differente, all’interno di queste relazioni era costante la percezione di una mancanza. Fin da subito, con i loro andamenti differenti, le pièce si sono disposte nell’ordine che vediamo in scena.
Secondo quale filo conduttore si distribuiscono i pezzi nella messa in scena?
Abbiamo lavorato sin dal primo incontro a questo copione in cui il passaggio dall’uno all’altro componimento risultavano naturali. Lo spettacolo inizia con i bambini e con uno dei testi più indefiniti, meno vivido, che si ambienta in una proprietà condannata e, nonostante esso abbia una trama profonda, non esplicita troppi elementi, rimane etereo. Dunque si parte a livello scenico con un paradosso: abbiamo degli attori di quarant’anni che interpretano dei bambini senza alcun riferimento al loro mondo, né nell’atteggiamento né nei costumi. Da lì ci è sembrato naturale andare verso una prima coppia esplosiva con Ogni venti minuti, una scintilla brevissima che conduce al rispecchiamento con Il figlio di Moony non piange. Anche qui troviamo due amanti in cui si invertono i ruoli, lei da vittima diviene quasi carnefice e, inoltre, passiamo dall’alta borghesia festaiola del secondo quadro al sobborgo operaio. Prima di arrivare al finale che ci conduce all’abbandono, abbiamo Autodafé, atto estremamente personale per Williams, che racconta di un rapporto madre-figlio in cui la morale autoimposta distrugge i due personaggi. Parlami come la pioggia conclude infine il lavoro con un respiro universale, senza alcuna collocazione temporale o spaziale che possa inserirlo in un contesto.
L’incomunicabilità è spesso rappresentata all’interno dello spettacolo con la distanza fisica dei corpi in scena, puoi approfondire questa scelta registica?
La resa dell’incomunicabilità ha rappresentato una sfida per me e per gli attori: volevamo esplorare questa idea attraverso l’utilizzo della distanza materiale tra i soggetti. Ci interessava approfondire questo punto di vista, forse più proprio del genere cinematografico, attraverso il quale i protagonisti interagiscono come in degli a parte. Grazie alla disposizione della scena al centro della sala, in alcune pièce, lo spettatore si trova inevitabilmente a fruire della visione del monologo dell’uno o dell’altro personaggio, schierandosi per una delle due parti. In alcuni punti le voci degli attori si sovrappongono esemplificando l’idea di fondo degli atti unici in cui queste solitudini non possono e non riescono a parlarsi e a comunicare, nonostante sia l’unica soluzione ai loro problemi.
Le scene non sono un contenitore, ma vivono insieme agli attori in questa rappresentazione. Come sono state ideate e realizzate?
Sulle scene ho lavorato insieme ad Alice Vanini Tomola sin dalla progettazione, perché lo spazio per noi deve parlare tanto quanto gli altri elementi in scena, deve agire. Mi piace sempre pensare che lo spazio sia un attore, che venga utilizzato come un parco giochi. Siamo partiti dall’idea del museo, di una raccolta di oggetti, di cosa rimane delle relazioni, delle nostre vite dopo che noi siamo andati altrove. Da lì è nato questo cumulo, questo caos che pian piano si organizza: alcuni oggetti vengono utilizzati, altri messi in ordine, altri nel finale ricondotti a vite specifiche dei frammenti. Ci sono oggetti nostri, dai laboratori del teatro, da donazioni, ma anche pezzi di sconosciuti, da lauree a cartoline, lettere e fotografie.