L’amore del cuore: teatro della rincorsa
di Anna Farina
Da un lato l’attesa: il tema più teatrale di tutti, in quanto ha natura tanto di oggetto di un discorso quanto di mezzo tramite cui esprimere questo oggetto. Dall’altro una regola drammaturgica che vive delle sue infrazioni. Sono questi i poli tra cui gioca L’amore del cuore (A heart’s desire), testo del 1997 di Caryl Churchill, drammaturga inglese contemporanea. È Lisa Ferlazzo Natoli, dopo il successo di When the rain stops falling, che si prende il compito di dirigere un nuovo lavoro che metta in scacco le consuetudini fruitive del pubblico italiano, accogliendo la difficoltà di rappresentare questo dramma fatto di una scrittura che deliberatamente smaschera sé stessa.
La pièce pone in scena una famiglia seduta intorno a un tavolo: due genitori, una zia, un instabile figlio ubriaco, una figlia-Godot che sta tornando dall’Australia. Ma basta la visione della scena aperta, prima dell’inizio dello spettacolo, per straniare il pubblico. Sul fondale dei proiettori puntano la platea: non ci sarà nessuna quarta parete, lo spettatore illuminato dovrà rimanere attivo nel confronto con le azioni drammatiche. Due microfoni sono sospesi a mezz’aria ai lati del palcoscenico, altri tre sono appoggiati sul tavolo, i cavi bene in vista: ogni finzione è già dichiarata. E l’apparente dramma borghese che si dovrebbe consumare attorno all’unica suppellettile di scena, un inglesissimo servizio da tè, viene interrotto ancora prima di costruirsi, quando un personaggio seduto al margine della scena ferma l’azione parlando in uno dei microfoni. Questi sarà il burattinaio di un gioco conturbante di stop e riprese drammaturgiche nel segno della variazione, della sospensione appena prima dei momenti di massima tensione.
Nella musica minimalista americana si usa dire che nei brani non cambiano i contenuti dei segmenti compositivi, ma la ricezione del pubblico di ogni segmento dopo aver ascoltato il precedente. E così avviene in L’amore del cuore: se l’attore che dà voce alle didascalie, ossia i corsivi, che sono la vera vita del testo della Churchill, interrompe l’azione e la fa ricominciare da capo, la nuova sequenza drammatica, in tutta la sua apparenza di totale identità rispetto alla precedente, non sarà mai davvero uguale. È il teatro con i suoi meccanismi “dal vivo” a renderlo inevitabile, ma anche una scrittura che subdolamente inserisce tra parole chiare e riconoscibili in ogni segmento delle sottili variazioni che nascono e muoiono senza produrre conseguenze strettamente narrative, ma soprattutto emotive: la menzione sospesa di un fatale incidente della metropolitana, un ritorno differente da quello atteso, una diversa intenzione nel compiere le stesse azioni.
Lisa Ferlazzo Natoli e il suo cast affrontano questo testo con le sue biforcazioni semplicemente accogliendo queste nella rarefatta chiarezza dell’impianto dello spettacolo, le cui soluzioni rappresentative talvolta spiazzanti non sembrano esserlo mai “troppo”. In questo modo, il pubblico, ormai abituato al gioco in cui si trova, arrivato persino a ridere, anche appena prima degli applausi, non può che rimanere sorpreso di nuovo.