Lancillotto e Ginevra oltre il cavalleresco
di Federico Demitry
Quella di Lancillotto e Ginevra è una delle più conosciute storie d’amore di tutti i tempi. Icona dell’amor cortese grazie a Chrétien de Troyes, ma anche paradigma dell’amore sbagliato come ci ricorda Dante Alighieri che, nell’Inferno, usa la storia degli amanti arturiani come chiave di lettura dei lussuriosi Paolo e Francesca («Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse» Inf. V, vv. 127-28). L’attrazione reciproca tra la regina Ginevra, moglie del leggendario Re Artù e Sir Lancelot, valente cavaliere della tavola rotonda, afferma potentemente che la fedeltà di ciascuno va al suo cuore prima che al suo re. Così facendo getta in crisi l’ordine costituito e fa sì che gli innamorati vivano la loro passione consapevoli dell’antagonismo che questa provoca con le gerarchie istituzionalizzate all’interno della società. Indissolubile dall’amore c’è dunque la colpa, e con essa la tragedia. Proprio come Paolo e Francesca, che pur avendo le simpatie del poeta per la purezza e l’irrefrenabilità del loro sentimento, hanno tradito l’ordine e la legge e, in virtù di questo, sono condannati in eterno. E infatti: «Quanti dolci pensier, quanto disio / menò costoro al doloroso passo!», esclama Dante (Inf. V, vv. 113-14).
Se spogliamo quindi la storia di Chrétien de Troyes da tutte le storicizzazioni popolari cui saremmo abituati, se rimuoviamo cavalli e castelli, gonne e armature, giavellotti e araldiche, quello che rimane sono proprio amore e colpa. Questi i sentimenti che dominano l’allestimento di Giovanni Ortoleva. Il trovarobato cavalleresco, simbolicamente riassunto nelle armature al centro del palco all’inizio della rappresentazione, viene disperso in frantumi per la scena, orfana di qualsivoglia altro elemento, a ricordare la cornice originaria del genere romanzesco e a significarne il superamento. Aggirata l’esigenza del costume, Leda Kreider e Edoardo Sorgente possono mostrarsi autenticamente nei panni degli amanti, non più maschere d’un altro tempo, ma donna e uomo, restituendo la storia del corpo che indossa l’armatura, non quella del cavaliere, della carne su cui poserebbe la corona, non quella della regina. Sta allo spettatore, poi, se ne sente l’esigenza, far sì che si sprigioni dal nero vuoto della scena il colore del sangue sulle mani di Lancillotto, o il verde della foresta in cui si perde; a concepire le altezze della torre, le geometrie dei ponti o il fango dei fossi.
Il ritmo della narrazione è invece affidato al testo di Riccardo Favaro e Ortoleva. Tutto lo spettacolo è saldamente ancorato e si dipana a partire dalle parole, che, come ingranaggi, muovono l’azione e rivelano le intenzioni, assieme alle luci di Massimo Galardini, che intervengono caravaggesche non ad illuminare, ma a strappare al buio scorci, profili, primi piani o mezzi busti. Per fare un esempio di quest’uso mai naturalistico ma sempre simbolico della luce, si potrebbe citare la scena in cui gli amanti si incontrano ma ancora non si riconoscono. Rimangono dunque in penombra, ai margini del cerchio luminoso, che riempiranno solo quando il malinteso sarà risolto.
Infine, in una pièce in cui gli elementi verbali predominano nettamente su quelli visivi, non si possono non citare le musiche, a cura di Pietro Guarracino, né tantomeno l’uso che viene fatto dell’amplificazione sonora. I microfoni, a volte nascosti tra i pezzi di armatura disseminati sul palco, a volte spudoratamente a centro scena con tanto di asta, servono non a far sentire meglio, ma a rimodulare i timbri o a distorcerli, contribuendo alle note drammatiche dello spettacolo e a rendere avvincente e del tutto peculiare l’esperienza acustica del pubblico.