L’eterno marito – negoziare con la propria identità
di Anna Farina
L’adattamento de L’eterno marito di Fedor Dostoevskij ad opera di Davide Carnevali, per la regia di Claudio Autelli, è andato in scena al Teatro Franco Parenti dal 9 al 18 Febbraio 2024.
Dostoevskij scrive di un uomo, Alexeij Vel’caninov, che viene visitato da un suo vecchio conoscente, Pavel Pavlovic, “eterno marito” sempre in cerca di una compagna. Il vero motivo della visita non è chiaro, fino all’ultimo. Il pubblico è informato dall’inizio che Vel’caninov fu amante di Natalia, la defunta moglie di Pavlovic, e forse persino padre di sua figlia, Liza. Nel corso del racconto i due antagonisti si incontrano varie volte, con una certa aria di sfida. Pavlovic vuole cercare una nuova moglie, coinvolgendo Vel’caninov, ma fallirà nell’impresa. Alla fine, prima di andarsene definitivamente, tenterà di ucciderlo.
Davide Carnevali non è estraneo a riscritture che mescolano realtà e finzione. Qui sono mescolate la vita dei personaggi e la vita degli attori (i lodevoli Francesco Villano e Ciro Masella) – che senza soluzione di continuità si appellano a vicenda Alexej e Pavel, ma anche Francesco e Ciro. Scelta funzionale per trasformare in dispositivo scenico efficace per il pubblico l’ambiguità dei rapporti tra i due protagonisti del romanzo, ma anche il loro stesso statuto di semplici personaggi. Del resto, ponendo l’assunto che ogni autobiografia è scrittura di finzione, e ogni scrittura di finzione è autobiografia, dalla pièce sembra emergere la suggestione che questi Pavel e Alexej sono sì Francesco e Ciro, ma forse anche Fedor, Davide, Claudio. Questo perché i due uomini che attraversano il palco, chiusi in un appartamento che il pubblico osserva da una sorta di finestra, sono l’archetipo di due figure maschili novecentesche in progressiva e ironica decostruzione. Non possono essere che due borghesi in lotta per un oggetto del desiderio già svanito e un’occasione di crescita già morta a incarnare questo processo.
Il progetto registico si fa dunque carico di una scrittura – teatralissima – piuttosto stratificata, ed è restituita al pubblico l’impressione di trovarsi al cospetto di un’opera tanto teatrale quanto cinematografica, con una scenografia quasi realistica che in un nonnulla diventa schermo da videoproiezione a servizio sia degli spettatori che dei personaggi. Il pubblico è poi più di una volta risemantizzato come personaggio, e trascinato a forza nel gioco scenico, forse come richiesta di pensare in modo serio al proprio ruolo di spettatore in quanto testimone di un percorso e depositario del giudizio su di esso, forse come richiesta di pensarsi effettivo protagonista del medesimo percorso dei personaggi. Il ritmo dello spettacolo è ben distribuito in momenti di accumulo di tensione e momenti di scioglimento, che si sommano alla labirintica dimensione tecnica dell’allestimento. Il pubblico è condotto oltre il palco, oltre la finzione, ma rimane nel gioco scenico grazie a un misterioso legame che collega il 1870 al 2024, e rende problema di tutti quello dell’impossibilità di uscire dalle identità imposte dall’esterno.