L’intimo racconto dell’ancella
di Chiara Narciso
Entrando nella Sala Blu del Teatro Franco Parenti ci si immerge immediatamente nella rappresentazione distopica che Margaret Atwood ha finemente descritto nel suo Il racconto dell’ancella. Le alette bianche che avvolgono il capo delle protagoniste del racconto pendono dall’alto, mentre al centro della scena solo una, insieme al caratterizzante abito rosso, giace per Viola Graziosi. Unica interprete dello spettacolo omonimo, l’attrice incarna June, punto di vista essenziale nel romanzo. Il suo monologo fornisce una sintesi del mondo pericolosamente possibile ideato dalla scrittrice: un regime totalitario teocratico instauratosi negli Stati Uniti a seguito di un colpo di stato.
Graziosi inizia il suo viaggio all’interno della Repubblica di Gilead, stato fittizio nel quale è ambientata la vicenda, partendo dalla descrizione delle costrizioni fisiche dell’abbigliamento: l’abito simile a una tunica, priva di evidenze corporali, e le alette capaci di non far vedere e di nascondere i volti. In questa idea di società, le ancelle rappresentano le donne per procreare. Questo diviene il loro unico scopo e sono addestrate appositamente per vivere a fianco di uno dei Comandanti e alla rispettiva Moglie. Il regime totalitario instauratosi pone come obiettivo l’aumento della natalità, fornendo corpi femminili con l’unico scopo della procreazione. Tutto nella quotidianità di Gilead è scandito da questa necessità e ritualizzato a tal punto da rendere l’inseminazione dell’ancella una cerimonia. Costrette alla solitudine, queste serve del regime comunicano di sfuggita e sussurrando nei rari momenti di incontro, durante le passeggiate o mentre comprano il cibo. Lo stesso tono sommesso viene utilizzato dall’attrice per ripercorrere le libertà perse.
La protagonista dà voce ai ricordi dei giorni in cui tutto ha avuto inizio: la perdita del lavoro, il divieto alla proprietà privata e tutti le costrizioni che fanno eco ai racconti delle lotte femministe, tramandati dalla madre di June. A Gilead, però, l’esercizio di potere sul corpo delle donne viene associato alla rinascita sociale. La filosofia delle Zie, responsabili degli istituti di indottrinamento delle ancelle, è esemplificabile attraverso l’urlo che Zia Lydia rivolgeva alle ragazze: «Eravamo una società che moriva per troppa libertà di scelta». Qui violenze di ogni tipo da parte degli uomini venivano ripetutamente mostrate in video per ricordare che quella poteva essere l’unica alternativa al presente.
Sul finale l’interprete svela, attraverso un intimo racconto, l’interlocutore del suo monologo: sua figlia. Si esplicita così l’urgenza del consegnare il ricordo dell’assetto socio-politico precedente al regime, per dissuadere la nuova generazione dall’accettare l’imposizione della nuova quotidianità.