Magnificat sive la grandezza dell’oca
di Margherita Mortara
Le luci in sala sono ancora accese, Lucilla Giagnoni è in mezzo al pubblico quando annuncia: «Io sono un’oca». E lo dice senza alcuno spirito di modestia: sapere di esserlo infatti «è già qualcosa». Anzi, l’autrice e sola interprete del monologo inizia a illustrare tutti i tratti che qualificano l’animale in cui si identifica.
Ne rivendica il carattere gregario, l’essere grande migratrice e combattente temibile, la femminilità in quanto simbolo di fecondità, la natura al contempo tragica e buffa; tutti aspetti che ne determinano un’anima profondamente teatrale. Sono numerose le storie di genesi poste sotto l’insegna di questo volatile archetipico: ai meno informati in merito alla sua ubiquità nelle culture di tutto il mondo, viene in soccorso questo spettacolo.
Al limite fra la lectio e il racconto, con un’impostazione ora filologica, ora quasi comica, e con un linguaggio che non si frena né davanti ai tecnicismi, né davanti alle rime musicali della filastrocca, la rappresentazione conduce gli spettatori in un viaggio basato sul gioco dell’oca, efficace metafora della nostra esistenza. Si parte dal presupposto che questo animale ha un’anima femminile: sia a livello lessicale che nelle sue caratteristiche essenziali; per questa ragione Magnificat parla soprattutto di donne.
Si lanciano i dadi. Avanzando sul tabellone ci si imbatte in diversi simboli e ognuno di essi funziona come rimando a una nuova storia, a una nuova genesi, a una nuova donna.
Nella prima casella si parte con la Sapienza, lato femminile del divino, chiamata una «fanciulla giuliva»; si passa poi a una principessa dormiente la cui vicenda è contenuta nella raccolta de I Racconti di mamma oca di Charles Perraut. Si incontra Baubo, portatrice di riso e fecondità, poi Clitemnestra, della quale Giagnoni fa rivivere tutta la furia con un’interpretazione potentissima; infine la sorte ci porta fino alla figura della Vergine Maria. È nel suo Magnificat che troviamo il senso dello spettacolo e, di conseguenza, del gioco della vita.
Quest’opera è una celebrazione potente dell’oca, dunque dell’inizio, degli atti che creano invece di distruggere. È un’esaltazione dell’Uomo, ma soprattutto della donna, e serve a esprimere con le giuste parole, dunque a «bene-dire», tutto ciò di cui essa è capace.