Parlami come la pioggia o delle solitudini raccolte
di Federico Demitry
Talk to Me Like the Rain and Let Me Listen è solo uno dei tanti spettacoli in atto unico firmati da Tennessee Williams, il drammaturgo americano noto per essere l’autore di uno dei testi capolavoro della seconda metà del Novecento: A Streetcar Named Desire, in italiano Un tram che si chiama desiderio, pièce con cui in Italia si sono misurati artisti come Luchino Visconti, Elio De Capitani, Vittorio Gassmann e Mariangela Melato, solo per citarne alcuni, e che negli Stati Uniti è divenuta un film da Oscar, con Marlon Brando nei panni del feroce e ambiguo Stanley Kowaski.
Parlami come la pioggia diretto da Andrea Piazza porta in scena, oltre a quello del titolo, altri quattro testi dello scrittore di Columbus. Cinque quadri in tutto, dunque, ritratti di coppia che prendono vita negli spazi del Teatro Franco Parenti. Sul palco, a cambiare vestiti e toni, Valentina Picello e Francesco Sferrazza Papa. Il tema centrale, che accomuna gli atti e che contribuisce a rendere fluidi i passaggi da uno all’altro, è la solitudine in cui i personaggi sono rinchiusi. Una forma di ciò che in tedesco si dice Zweisamkeit, essere soli in due. Quello che lega le loro storie, siano essi vecchi amanti o una giovane coppia, due conoscenti o madre e figlio, è un fondo di incomunicabilità che li allontana e li rende a volte estranei, a volte insopportabili all’altro, comunque sempre di ingombro. Concetto che riverbera nella costruzione della scena, che è fatta di oggetti dei più disparati, sparsi ovunque: libri, riviste, foto, dischi, comodini, soprammobili vari, vestiti, scarpe, assi di legno, utensili. Una proliferazione del trovarobato che gli attori devono di volta in volta schivare, ma anche spostare, riutilizzare o abbandonare, riproducendo dal vivo quel lungo processo quasi automatico che pone i nostri effetti personali nei bidoni dell’immondizia oppure nel cassetto dei ricordi, nei ripostigli oppure nel dimenticatoio, e che di solito chiamiamo: il passare del tempo.
Uno degli aspetti salienti di questa rappresentazione, inoltre, è dato dall’organizzazione dello spazio scenico al centro della sala. Sono le sedute poste su quattro lati a chiuderlo, creando di fatto i muri delle stanze in cui si svolgono le vicende dei protagonisti, cosicché, rotta la convenzione dello sguardo frontale, lo spettatore ha quasi la sensazione di avere realmente accesso alla quotidianità altrui, trovandosi nella posizione comoda di chi spia sapendo di non poter essere scoperto, più che di chi guarda da lontano. Quando lo spettacolo sarà terminato e gli attori avranno lasciato la sala, inoltre, il pubblico si troverà a poter attraversare fisicamente uno spazio che intanto è stato modificato dal transito di cinque quadri e dieci vite: è stato svuotato, con gli oggetti ai lati, classificati e riordinati, come indicano dei cartelli, in un «Museo delle solitudini raccolte». Un espediente che crea un senso di vuoto, perché ciò che era vivo fino a poco prima è ora reperto di storie passate e persone andate, perché dalle targhette con i nomi di fianco alle cose morte riverbera la tristezza garbata di tante pagine di Williams, la paura della vulnerabilità di tanti suoi personaggi e la loro irrimediabile, da soli o a coppie, solitudine.