Quel lesbodramma di Boston Marriage
di Andrea Piumino
“Matrimonio bostoniano” è un’espressione usata a fine Ottocento per indicare la convivenza di due (o talvolta più) donne senza il supporto finanziario di un uomo. Il termine in sé non ha una connotazione romantica ma piuttosto politica, si trattava in genere di suffragette che non intendevano sottomettersi al potere patriarcale di un marito-padrone. Il fatto che la maggior parte delle femministe dell’epoca fossero separatiste lesbiche ha poi reso questa espressione sinonimo di convivenza tra donne lesbiche.
Nel dramma di Mamet, Anne e Claire sono le bostoniane in questione: Claire sicuramente lesbica, Anne verosimilmente bisessuale. In passato hanno avuto una lunga storia d’amore, Claire però se ne è andata e Anne, in quanto sola, dovendo fare i conti con la povertà, ha trasgredito quel vincolo protofemminista di cui sopra: ha cercato sostegno economico in un uomo.
La commedia inizia con Claire che ritorna nella casa che una volta ha condiviso con Anne, ma non per dirle che è pentita della sua scelta e che vorrebbe tornare, come spera Anne. Le dice invece che si è innamorata, questa volta di una ragazza appena adolescente, e che ha bisogno della casa per poter “consumare” il suo giovane amore, in mancanza di un altro posto dove stare. È in questo momento che scattano le dinamiche di potere, le pressioni e manipolazioni psicologiche: i termini di questo scambio commerciale tra le due donne sono una copertura (offerta da Anne, in cambio della partecipazione al rendez-vous, almeno da spettatrice) e la giovinezza (di Claire e della sua ragazza).
Questo Ménage à trois alla fine non si realizza per una serie di incidenti che rendono questo dramma una commedia degli equivoci a tutti gli effetti, ma forse la trama ha una rilevanza marginale rispetto ai temi che Mamet fa emergere. L’equivoco in questione risiede nel collier di diamanti che porta Anne al collo, simbolo materiale di quanto il suo uomo è disposto a sacrificare per lei, ma che purtroppo il giovanissimo amore di Claire riconosce come il collare di sua madre. Questa gnosi mette in luce le contraddizioni della società e dell’istituzione famiglia: il padre (amante di Anne) non deve far sapere che ha l’amante, la figlia non deve far sapere che ha rapporti omosessuali (con Claire).
Quello che più è interessante vedere, invece, sono i rapporti di potere che si instaurano anche in una relazione omosessuale che dovrebbe essere “alla pari”. Anne gioca con i sentimenti di Claire, li manipola, si comporta come se tenesse il coltello dalla parte del manico solo perché è più vecchia, ha più esperienza ed è più ricca. Ma alla fine, a causa di quell’equivoco, entrambe si ritrovano sole e disperate, senza il giovane amore, senza le ricchezze e senza quella tanto aspirata stabilità economica. E anche in una situazione simile, Anne cerca di manipolare Claire, la vuole a tutti i costi con sé e partecipe della propria sventura, ma questa volta per poter ricominciare da zero, senza giochi psicologici di nessun tipo. Scappare per andare a vivere in campagna, lontano dalla società ma soprattutto lontano dagli uomini.
E proprio nella conclusione ecco la dichiarazione, in questo caso proferita da Claire: «Siamo state tutte, in un qualche modo, fregate dagli uomini». E da qui il valore politico dell’opera, che apre la lettura della parabola sotto una lente femminista. In scena non c’è nessun uomo eppure le sorti dei personaggi (Anne, Claire e la loro cameriera) sono nelle mani degli uomini. L’unica alternativa è fuggire, sostenersi economicamente a vicenda in quella istituzione che è il matrimonio bostoniano, lontano dai condizionamenti eterosessisti ed eteronormativi, per trovare alla fine la loro libertà.