Scritto nella pietra. Mostra di shodō – Per un’arte universale
di Bianca Vittoria Cattaneo
Una settimana (e poco più) in cui l’arte calligrafica ha conquistato le sale e gli ambienti della Palazzina presso i Bagni Misteriosi. Dal 9 al 16 Ottobre il Teatro Franco Parenti, in collaborazione con l’associazione culturale shodo.ch, ha prestato i suoi spazi a Scritto nella pietra: una mostra d’arte che ha portato con sé anche una travolgente folata di vento orientale. Otto giorni dedicati non solo all’esposizione delle opere, ma caratterizzati ognuno da un evento volto ad approfondire i temi della calligrafia o, più in generale, dell’arte giapponese. L’inaugurazione si è svolta il 9 Ottobre nel foyer del teatro: in un’unica serata è stato possibile assistere alla performance collettiva dei tre artisti autori delle opere in mostra. Morioka Shizue, Nakajima Hiroyuki e Bruno Riva danzando sulla carta stesa a terra si sono destreggiati in una dimostrazione, tracciando segni e scritte con pennello e inchiostro.
Il termine shodō, spesso poco felicemente tradotto solamente come calligrafia, significa letteralmente via della scrittura; si tratta di una disciplina sviluppatasi inizialmente in Cina e poi diffusasi in tutto l’estremo oriente. La traduzione letterale riesce a trasmettere in modo più efficace ciò che il termine giapponese veicola: il nome, infatti, contiene il carattere -do, che sta ad indicare l’idea di spostamento. L’arte shodō presuppone un percorso di apprendimento e di perfezionamento, che per il calligrafo avviene non solo esteriormente migliorando la tecnica artistica, ma innanzitutto attraverso un intimo viaggio di crescita spirituale.
All’interno della Palazzina di Via Carlo Botta le sale adibite alla mostra sono tre e sono state scelte personalmente dagli artisti in base alle proprie esigenze espressive. Il primo spazio visitabile, quello scelto da Nakajima Hiroyuki, ospita un’opera di grande spettacolarità. Lunga diversi metri e sporcata con impronte di piedi, è posta al centro della stanza e, come una passerella, ci dà idealmente il benvenuto accompagnandoci all’interno dell’esibizione. Il foglio steso a terra rimanda subito al concetto alla base della shodō: un’arte come via e come cammino. Allo stesso tempo si inserisce con omogeneità nel contesto della sala Zenitale, le cui porte, che prima permettevano l’accesso alle docce delle ex piscine pubbliche, si schiudono su di essa, in un’idea di apertura all’arte shodō.
Nelle produzioni dei tre artisti risulta evidente anche ad un occhio profano di calligrafia la centralità della natura e del rapporto che l’uomo crea con il mondo che lo circonda. I rimandi agli elementi naturali sono alla base di ogni creazione. La scrittura, a partire dagli antichi geroglifici (a cui fa riferimento anche il titolo della mostra), è da principio costituita da segni che riproducono elementi della realtà, poi evoluti nel tempo. Si è trasformata per ritrovarsi oggi alla base della vita moderna, senza che l’uomo si renda più conto del vincolo presente tra la meccanicità della grafia nella continua ripetizione di caratteri e la sua origine. L’arte calligrafica ci accompagna all’interno di questa riscoperta, per ritrovare un connessione tra scrittura e natura e poi, attraverso questo legame, per permettere anche una liberazione spirituale dell’uomo.
Un’emancipazione che è possibile solo attraverso un continuo esercizio calligrafico e una preparazione approfondita in questa disciplina. Solamente in seguito ad anni di studio, nel momento in cui il segno è tracciato sulla carta con l’automatismo di chi padroneggia alla perfezione una tecnica, è possibile raggiungere uno stato di vuoto mentale necessario per concentrarsi sulla parola e sul significato da trasmettere.
In un tempo in cui siamo sempre più dipendenti dall’artificialità e dalla virtualità, la semplicità dell’inchiostro nero sulla carta bianca ci riporta ad una riflessione universale: la vicinanza e la partecipazione dell’uomo a ciò che è per natura, e che sta piano pano distruggendo. In un continuo rimando anche al tema della crisi climatica che ci sta assorbendo e che ancora non riusciamo a combattere, la shodō ci aiuta a sfruttare aspetti della nostra memoria istintuale per tornare a quell’essenza primigenia e ancestrale che ci caratterizza e che è innanzitutto carne, sangue, anima e memoria.
Uno specifico esempio di universalità (all’interno di un’arte che appare inizialmente incomprensibile per via della barriera linguistica) è ben evidente in un’opera esposta di Bruno Riva. L’artista, italiano, sceglie attraverso una disciplina giapponese di rappresentare parte di una canzone di un autore cileno: «Scrivo perché voglio che i miei pennelli esprimano emozioni e sostanza. Con un cuore di terra e ali di colomba» da Manifiesto, Victor Jara. In un’unica creazione si compie una sorta di fusione ideale di tre continenti, e allo stesso tempo ben si sintetizza attraverso i caratteri che la compongono il fondamento alla base dell’arte shodō. Al centro di tutto sta la scrittura, che è un percorso e che è anche l’azione prima del calligrafo. Attraverso di essa si veicolano inscindibilmente l’emozione e la sostanza: l’astrazione del concetto che si vuole esprimere e la matericità del segno grafico. Due aspetti che, infine, si specchiano nel loro corrispettivo naturale: la colomba, leggera e spirituale e la terra, grezza e primitiva.