Siamo nati nella cipria: il dramma di come un figlio diventa suo padre
di Angelica Ferri
Sono due fratelli, provenienti dal profondo Veneto, ad abitare il palcoscenico della Sala A del Teatro Franco Parenti. Sono gli stessi fratelli, Marta e Diego Dalla Via, ad aver scritto e diretto questo loro spettacolo: Mio figlio era come un padre per me.
«Noi siamo nati nella cipria. Mio padre è nato povero poi è diventato ricco. La prima generazione ha lavorato. La seconda ha lavorato e risparmiato. La terza ha lavorato, risparmiato e sfondato. Poi siamo arrivati noi…». Questa è la realtà che la voce dei due giovani interpreti vuole testimoniare: un mondo di falso ottimismo e contraffatta felicità, occupato da una frenesia portata all’estremo e da un lavoro che conduce allo stremo, che condanna le giovani generazioni alla perfezione e all’ansia da prestazione continua per mantenere in piedi imperi industriali costruiti dai loro progenitori.
Quale potrebbe essere quindi l’unico modo di sradicare quel gigantesco sogno americano di rivalità e compiutezza coltivato durante gli anni della crescita economica in Veneto? Uccidere chi l’ha creato. «È in questo momento che abbiamo immaginato di far fuori i nostri genitori. Per diventare noi i padroni. Non della casa: delle nostre vite. Niente armi, niente sangue. Un omicidio due punto zero. Fuori dalle statistiche, fuori dalla cronaca, un atto terroristico nascosto tra le smagliature del quotidiano vivere borghese».
Lo spettacolo scivola leggero e divertente, ravvivato dai continui spostamenti della scenografia composta e scomposta all’occorrenza solo attraverso delle cassette portabottiglie di plastica colorata che appaiono come tanti mattoncini Lego e che cercano di ricordare una vita infantile ormai dispersa tra le preoccupazioni del mondo adulto. Ma l’ironia e il gioco alla distruzione della supremazia genitoriale e all’omicidio architettato dai due fratelli crollano quando il quotidiano di Vicenza annuncia la ferale notizia del suicidio dello stacanovista e instancabile padre e una lettera testimonia il suicidio della perfetta e bellissima madre dei due.
E ora? Rimangono soli i figli: troppo viziati e troppo abituati alla quotidianità borghese, inadeguati alla gestione delle rovine e dei debiti, impreparati alla vita in quella pianura nebbiosa e mesta in cui vedere una via di scampo sembra impossibile. Il dramma quindi si conclude con ironia grottesca e la sconfitta amara di chi seppellisce le sue ambizioni e in scena si svolge un funerale laico che non è, però, onore della morte dei defunti che lasciano il mondo ma condanna della vita, delle speranze e dei sogni di chi resta.