Una vita che sto qui: i ricordi che abitano le periferie
di Angelica Ferri
Quando si tratta di periferie, tutto il mondo sa parlare la stessa lingua: abusivismo, case che cadono a pezzi e persone stanche della vita al margine della società. Ivana Monti porta in scena al Teatro Franco Parenti Una vita che sto qui, la storia di un’anziana signora che «da una vita» abita la periferia di Milano.
Adriana, seduta al tavolo della sua vecchia cucina, racconta con rabbia di aver ricevuto una lettera dall’Aler, che l’avvisa di un prossimo e temporaneo trasferimento in attesa di riqualificare il quartiere. Lei, ormai ottantenne, è certa che allontanandosi dal condominio in cui è cresciuta non ci farà più ritorno, lasciando con esso anche la Lorenteggio che costudiva tutti i ricordi della sua vita passata.
In quella casa ci è entrata da bambina e quei quarantotto metri quadri le sembravano una reggia. Ormai la cucina dell’anziana è logorata dal passare del tempo ed è ancora ferma agli anni ’70, epoca in cui lei costruiva la vita di esperienze che ora ricorda attraverso quegli abiti racchiusi negli scatoloni del suo forzato trasloco. Un vestito celeste parla di una gioventù vissuta nel periodo del florido dopoguerra, in una famiglia onesta, con una mamma attenta e un padre premuroso. Adriana amava molto il suo papà e lo descrive come un fervente partigiano, uno sfegatato tifoso del Milan e un grande appassionato di opera lirica; un uomo affettuoso ma sempre pronto a lottare per le sue idee senza alcun timore.
Durante lo spettacolo i racconti, in un milanese impeccabile, scorrono come un fiume in piena, ripercorrendo la vita trascorsa passo dopo passo: il primo fidanzato, la morte del padre, la depressione della madre e la nascita inaspettata di un figlio. Ora, tra le sue braccia, Adriana stringe una tutina di bimbo e, bagnandola con le lacrime dei fantasmi passati, racconta della sua vita adulta cominciata troppo presto. L’arrivo di un bambino da mantenere da sola, la mamma fragile di cui prendersi cura, un lavoro a tempo pieno, l’adolescenza travagliata, l’eroina e infine la morte di quel figlio, che agli occhi del pubblico rimane sempre accoccolato in un abbraccio materno.
Dai ricordi riemerge nel presente un’anziana signora, scontrosa e inasprita dalle difficoltà e dalle diversità che abitano il suo quartiere, animato ormai, secondo lei, solamente da immigrazione e da malvivenza. La combinazione fra il presente e il passato, fra la goffa comicità e l’inespressa tristezza crea un ritratto sincero e realistico di una donna stanca di affrontare un mondo che non le appartiene più.
Ivana Monti interpreta questo monologo con una grandissima carica attoriale che le permette, tramite pochi oggetti di scena e semplici parole dialettali, di descrivere attraverso il suo personaggio una Milano marginale, dando voce a tutti coloro che sono costretti, dopo anni, a lasciare le loro case consumate di ricordi ed emozioni.