di Joseph Roth
adattamento e regia Andrée Ruth Shammah
con Carlo Cecchi
e con Claudia Grassi e Giovanni Lucini
spazio scenico disegnato da Gianmaurizio Fercioni
con le suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin
luci Marcello Jazzetti
costumi Barbara Petrecca
produzione Teatro Franco Parenti
Sarà il maestro Carlo Cecchi, con quella sua voce roca, quel suo tono ironico e distaccato, a disvelare la parabola del protagonista Andreas: un’esistenza perduta dietro alle occasioni della vita, ma protesa fino alla morte verso l’adempimento di un dovere morale. Un’inquietante discesa nel delirio, ma soprattutto nell’impotenza, di quella oscurità ubriaca e piena di lampi che scandisce i suoi ultimi istanti di vita.
La lettura di Ruth Shammah è fortemente simbolica. La sua elaborazione drammaturgica è ricca di suggestioni e articolata su vari livelli interpretativi. (…) Insomma, la Shammah ci ha offerto, ancora una volta, una gran bella pagina di teatro.
– Maurizio Carra, Teatrionline
Rifuggendo il pittoresco, giocando in penombra, alla regista milanese basteranno gli accenni di qualche nostalgica canzoncina e una scena minima che rappresenta un bistrò le cui pareti ricevono le immagini di una Parigi piovosa e d’antan (…) lo spettacolo è di quelli che possono lasciare un segno.
– Domenico Rigotti, Hystrio
La fine regia di Andrée Ruth Shammah situa la vicenda, che assume i colori dell’apologo, in un bar anni Trenta (…) e tratteggia l’impossibilità di agire del protagonista, la sua vicenda raccontata come un’inquietante discesa nel delirio, ma sopratutto nell’impotenza, in quella oscurità ubriaca e piena di lampi che scandisce i suoi ultimi istanti di vita.
– Maria Grazia Gregori, L’Unità
Quanto alla lettura è tutt’altro che tradizionale. La vita sregolata di Andres, nella visione di Shammah, è priva di sensi di colpa e conduce comunque a una bella morte, chiusura di un’esistenza vissuta in un secondo.
– Igor Principe, Il Giornale
dal programma di sala della prima edizione dello spettacolo nella stagione 2006/07:
UNA STORIA SBRICIOLATA, Claudio Magris
Citazioni da Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Einaudi, 1971 di Claudio Magris
La mancanza di un punto di appoggio, magari utopico, fa di Roth un poeta moderno del vuoto e dell’assenza di significati. Roth ritrae e osserva la realtà che lo circonda da una prospettiva scentrata, dalla mancanza di un punto centrale e coordinatore. Tale vuoto è il risultato della dissoluzione dell’impero e della disgregazione di una coralità umana e religiosa, quella dell’ebraismo orientale.
Per Roth l’ebreo diviene l’uomo moderno simbolo di sofferenza, di comprensione, di esilio dalla propria divina eredità.
Il tono di Roth “è in fondo ancora quello della parabola chassidica, che istruisce narrando storie mistiche, le quali si rivelano poi storie di profonde e semplici verità umane”. È in questo “aldilà nell’aldiquà” che sopravvive una possibilità di epos e quindi di libertà, una libertà di sentimenti e di affetti contrapposta al mondo moderno in cui, secondo quanto sostiene Roth al pari di Benjamin, gli uomini sono divenuti anonimi: e identici gli uni agli altri, incapaci ormai di parlare di cose private.
Roth fa parte anch’egli dell’ultima generazione, privata del retaggio; anzi, è il sopravvissuto all’ultima generazione, il narratore che può soltanto riferire e parlare di valori perduti nel tempo. Il gruppo di sbandati, esuli e irregolari senza fissa dimora riunito nel locale russo “Tari-Bari” di Parigi diventerà una simbolica cerchia di ascoltatori chassidici, che si attendono solamente dal racconto salvezza e verità. Del mistero restano soltanto le parole, il caos può venire affrontato e decifrato unicamente nell’apologo. La grandezza dell’ultimo Roth consiste proprio in questa conseguente riduzione di ogni valore al piano dell’immaginario e nell’intrepida ironia con cui lo scrittore riconosce l’irrealtà, il nulla di questo illusorio fondale, sul quale egli costruisce il suo universo. La vera ironia non è mai dissacrante bensì tenera e disillusa, impietosa e insieme indulgente.
Staccato da ogni legame con i padri e privo di figli, Roth è tagliato fuori dalla continuità della tradizione e della trasmissione dei valori; testimone incalzato ma non affascinato dalla barbarie, egli sembra incarnare ai suoi stessi occhi la disintegrazione radicale dell’Ostjude transfuga e assimilato. […] La religiosità dei suoi ultimi racconti è a doppio taglio, rivelatrice e insieme autodistruttiva. Die Legende vom heiligen Trinker, una stupenda novella enigmatica nella sua ambigua semplicità, è la favola di una periodica e continua inadempienza, di una soffice e deserta discesa nel nulla.
La città industriale compare in una luce sinistra e insieme squallida, come un inferno privato d’ogni sia pur rovesciata grandezza metafisica: maleodorante, percorsa da scoli fangosi e fumanti, fradicia di pioggia, di polvere di carbone, di marcia poltiglia; la pioggia che la separa dal cielo e le preclude ogni slancio ascensionale e ogni rapporto verticale “sembrava una tenda che coprisse il mondo”. Come nei quadri di Chagall gli elementi del mondo ebraico vengono innestati sulla disintegrazione del mondo parigino.
In tutta l’opera di Roth, il miracolo appare come in una luce enigmatica e contraddittoria, circonfuso in un alone di ironia.
Forse non conta chiedersi se Roth ironizzi il miracolo del signore attempato che riempie il portafoglio di Andreas e il miracolo di Santa Teresa oppure la vita raminga del clochard sotto i ponti della Senna. […] L’ironizzazione […] è totale, ma in un senso ben preciso: essa esprime cioè soltanto un blando naufragio nella fine. Il richiamo del mito è irresistibile, ma inutile: Roth non si abbandona ad alcuna suggestione della decadenza, bensì unicamente a una stanchezza che mira solo alla quiete. Nessuna morbosa seduzione della morte, ma un lasciarsi andare, che nella sua completa disillusione smaschera ogni fascino degli inferi e della morte. Nella ripetizione e nella progressione della parabola, gli eventi sfilano fuggitivi e irreali proprio nella precisione onirica dei loro dettagli le miracolose apparizioni del signore attempato, l’incontro con i vecchi camerati o con la donna amata, l’avventura erotica nell‘albergo. […] Il mito che chiama al nulla è altrettanto ingannevole quanto lo sono le premesse dell’esistenza quotidiana. L’ebreo assimilato scopre l’’universale esaurimento dei valori, l’imperfezione incorreggibile e definitiva della vita.
Andreas Kartak, il protagonista della Die Legende vom heiligen Trinker, naufraga nell’alcool trovandovi non la serenità idillica come gli eroi delle leggende talmudiche o delle storie chassidiche, bensì la pace del non essere […] L’alcool di Andreas diventa simbolo di una realtà meramente immaginaria, ironica perché consapevole di essere costruita sul nulla e malinconicamente allusiva nei riguardi dell’irresistibile ma sostanzialmente inutile richiamo del mito.
La «lieve morte» della Legende non vuol significare altro se non lo spegnersi dei sensi, la pace dell’oblio: è un addio globale, anche dall’ethos giudaico. È una opzione per il non-essere, il commiato dall’individualità e quindi, indirettamente, da quella categoria storica per eccellenza dell’individualità che era stata la civiltà ebraico-mitteleuropea: non a caso Andreas proviene dall’oriente polacco. La malinconia trapassa in parodia, la realtà apparentemente nitida dell’apologo si frantuma in sfuggenti e inafferrabili zone d’ombra; un angelo del Giudizio pare elevarsi al di sopra del narrato e del narratore, per pronunciare un verdetto pur pieno di comprensione.
Alla conclusione del suo itinerario Roth si trova dunque ad aver dissolto completamente ogni punto di riferimento reale e ad aver distrutto il terreno sul quale edificare una qualsiasi costruzione narrativa. Gli resta soltanto lo spazio dell’immaginario: il racconto può essere soltanto parabola, stilizzazione del niente, ironico rifugio nel libro.