Un uomo è sospeso nello spazio scenico, un campetto da gioco di quelli della nostra infanzia. L’uomo è il bambino Filippo, capelli da paggetto e pigiama a tema Goldrake, un acrobatico Timi che volteggia dentro e fuori i confini della sua “scatola cranica sigillata” per dare voce con insolita potenza attoriale e una scrittura irriverente e comicamente drammatica all’esperienza della disabilità. Il bambino Filippo si definisce un “handicappato” e la parola col suo peso non politicamente corretto mette tutti –attori e spettatori- al riparo da ogni parvenza di buonismo. Anzi, è chiaro fin da subito che, se di disabilità si tratta, è più di quella autobiografica che dà origine al testo scritto dall’attore. Filippo è infatti l’incarnazione del bambino e poi adulto ingabbiato nella convenzione della sua nascita, quella fisica che lo ha dotato di una “bocca murata” che può esprimere emozioni e pensieri solo attraverso muggiti incomprensibili da fuori. E quella più simbolica che riguarda tutti gli umani, disperatamente alla ricerca di un modo per comunicare ed essere visti per quello che sono.