Dolore sotto chiave/Sik Sik: la leggerezza impegnata di Eduardo secondo Carlo Cecchi
di Lorenzo Cazzulani
Il pesante telo bianco, fiocamente illuminato da una calda luce giallastra, nasconde una prima scenografia. Un antico mobilio di un salotto borghese, un tavolo e qualche sedia, sullo sfondo di una carta da parati; il tutto avvolto da una penombra che evoca un persistente odore di tempi passati. Il secondo allestimento rompe rocambolescamente l’immagine dipinta con la prima scenografia: colori vivaci e toni accesi sullo sfondo di un gioviale teatro abitato da un eccentrico prestigiatore.
Carlo Cecchi porta in scena due testi dall’imponente produzione drammaturgica di Eduardo De Filippo. Scritti a più di trent’anni di distanza, Sik Sik l’artefice magico è un’irriverente parodia di un prestigiatore attempato, interpretato da Cecchi; Dolore sotto chiave, invece, appare un’opera più matura, misurata ed equilibrata. Se nella prima la comicità classica napoletana è elevata a protagonista assoluta della scena, rappresentando divertenti incomprensioni e battibecchi tra gli assistenti del prestigiatore, nella seconda traspare una sottile attenzione per alcune pieghe esistenzialmente impegnative. Infatti, in Dolore sotto chiave si nascondono sotto la spessa coltre di comicità tematiche importanti: il perbenismo borghese, le difficili relazioni parentali, il tema del dolore revocato senza diritto. Il testo si destreggia bene tra la comicità e la drammaticità, sempre sullo sfondo di quella penombra antica che la scenografia presenta, ponendo lo spettatore all’interno di una commedia leggera, ma affondando il colpo della riflessione esistenziale quando meno se lo aspetta.
Il ritmo della commedia privilegia molto di questa impostazione: nessun momento di vuoto, lo spettatore è sempre sospeso sul filo del rasoio della narrazione. I repentini cambiamenti di tono della messinscena producono un effetto piacevole, anche sul pubblico, dal momento che in sala le risate vengono troncate di netto quando si verifica un passaggio drastico dal tema comico a quello tragico, riprendendo senza esitazione con il ripresentarsi della comicità. La regia cerca di stare al passo della briosità del testo, sebbene non sempre riesca nell’intento. I giochi di luce cambiano seguendo il ritmo della commedia, facendosi più taglienti e incisivi nelle punte di drammaticità. Tuttavia, l’accompagnamento registico raramente risulta “uno a uno” con la struttura del testo, dando a volte l’impressione che la regia sia un passo indietro rispetto alla narrazione. Tuttavia, il risultato generale non ne risente troppo. La gestione della musica, come quella della luce, è parsimoniosa, utilizzata quando serve: essenziale anch’essa ai fini di un connubio, generalmente riuscito, tra regia e narrazione.
Sebbene i rimandi esistenziali del testo siano interessanti e divertenti da ricercare, essi non paiono configurarsi come la ragion d’essere dello spettacolo. La risata, prodotta attraverso la leggerezza della commedia, è certamente l’obiettivo che Carlo Cecchi vuole perseguire. Lo dimostra il fatto di aver legato una commedia matura e per certi versi amara – se si pensa al finale – a una che invece non mostra altro che pura comicità e vivacità, come è Sik Sik, la quale scatena spontaneamente le risate del pubblico. La recitazione è un altro elemento che lega fortemente i due testi: come la gestione della musica e della luce, anch’essa è parsimoniosa, pulita, composta, senza sbavature. Non vuole stupire né sfigurare, ma porsi con umiltà al servizio del testo.
Se in Dolore sotto chiave i temi esistenzialistici affiorano in modo abbastanza esplicito, un momento di Sik Sik – nonostante la leggerezza complessiva del testo – sembra restituire la medesimabimpressione: verso la fine della commedia, l’artefice magico è pronto ad eseguire i suoi giochi di prestigio e, alle sue spalle, la scenografia si trasforma in un teatro vero e proprio, divenendo palcoscenico dell’attività del prestigiatore. Il pubblico stesso diventa parte integrante dello spettacolo costituendosi come attore all’interno di una dialettica “pubblico-messinscena”, toccando con mano il mutamente di piani e sentendosi così coinvolto nella rappresentazione. Un tema marginale, certo, ma che evidenzia l’affinità delle tematiche tra i due testi che Cecchi ha proposto.