Il malato immaginario corona il Cinquantesimo del Parenti
di Federico Demitry
«E proviamo anche questa», dice Franco Parenti nei panni dell’Argan di Molière, a chiusura di quella rappresentazione del 1980 all’allora Salone Pier Lombardo. Nel 2022, a suggellare il legame tra la città di Milano e lo storico teatro, va in scena quella stessa pièce. Franco Parenti è oggi il nome che racchiude una storia lunga mezzo secolo e che ancora continua, come testimonia, oggi come allora, il timone registico saldamente in mano ad Andrée Ruth Shammah. Sul palco, invece, a pronunciare quella stessa frase, c’è un portentoso Gioele Dix, che fa rivivere al pubblico l’emozione di trovarsi di fronte a un personaggio senza tempo.
Nella chiosa c’è infatti la scaltrezza dell’Argan malato immaginario, che sfonda in un sol colpo la quarta parete, strizzando l’occhio al pubblico in un misto di beffarda innocenza e fulminante sagacia. Caratteristiche che accendono un faro sul genio di Molière, esaltando la ricchezza di un classico in cui il tragicomico sorge spontaneamente, come reazione chimica naturale tra la complessità dei personaggi e gli equivoci della farsa. La regia di Andrée Ruth Shammah, poi, minuziosa ed elegante, restituisce al meglio la modernità di Argan, personificazione della nevrosi e della monomania. La sua malattia inventata rivela una strategia, al limite tra la coscienza e l’inconscio, di gestione della crisi. La tesi dell’ipocondria regge se si accetta che la paura è della vita e non della morte, sicché il male del malato è non sapere affrontare il suo stare al mondo e i rapporti interpersonali che ne sono diretta espressione. Da qui la coperta rassicurante della malattia, la necessità di delegare le sorti della propria esistenza ad una autorità superiore che prescriva cosa si debba e cosa non si debba fare, per scaricare finalmente il fardello della propria responsabilità personale.
Per questo l’azione ruota intorno al capezzale del sedicente infermo. Uno spazio chiuso che rappresenta simbolicamente il privato e l’interiore del personaggio, con cui interagiscono le forze estranee del mondo esteriore. La scrupolosa scenografia, quella sobria e originale di Gian Maurizio Fercioni, è un ulteriore colpo da maestro. I tulle neri che delimitano la stanza del malato sono simbolicamente il confine sottile tra il tragico e il comico, nonché l’espediente che consente alle luci di restringere e allargare lo spazio scenico. In questo modo, alla bisogna, allo spettatore viene offerto sia uno sguardo intimo nel chiuso della camera, sia uno sguardo più ampio che mette in luce il gioco di sotterfugi ed equivoci che compongono l’impalcatura comica del testo.
Da segnalare, inoltre, il ruolo di Anna Della Rosa nei panni della domestica. Già celebre per il suo ruolo ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino e ne La trilogia della villeggiatura diretta da Toni Servillo, Della Rosa primeggia insieme a Dix all’interno del folto cast di attori, i quali, tutti quanti, riescono nel difficile compito di misurarsi con un classico di tale portata e di tale rilievo per il Teatro. Buffi ma mai clowneschi, comici e a tratti beckettiani, vincono la sfida dell’empatia tra palco e sala, imprescindibile componente di un successo annunciato e meritato.