L’eternità sulla terra: Enzo Bianchi dialoga con Umberto Galimberti
a cura di Mattia Rizzi
Sul comodino di Enzo Bianchi, fin da quando era ragazzo, ci sono la Bibbia e il De rerum natura di Lucrezio, due testi cardine per il pensiero occidentale. Proprio entro i confini della cultura biblica e di quella greco-romana si è tenuta la conversazione tra Enzo Bianchi e Umberto Galimberti, che hanno dialogato al Teatro Franco Parenti in occasione della pubblicazione di Cosa c’è di là. Inno alla vita, ultimo libro del fondatore del Monastero di Bose.
Il saggio di Bianchi si apre con un verso di una poesia di Rimbaud: «Elle est retrouvée. Quoi? L’Eternité». L’ex priore, orfano da quando aveva otto anni, l’eternità se la immaginava come un tempo senza fine, durante il quale avrebbe contemplato Dio e ascoltato ininterrottamente il canto degli angeli. Eppure, nonostante gli insegnamenti del tradizionale catechismo, il giovane Enzo si convinse presto che l’eternità non andava cercata tra i petali di una «candida rosa», bensì tra le zolle di terra del Monferrato.
Come confessa lo stesso Bianchi, infatti, durante il corso della sua vita egli ha cercato anzitutto di essere fedele alla terra, prima ancora che a Dio. Essere fedeli alla terra vuol dire essere rispettare la condizione umana e imparare a riflettere sul senso del limite e sulla nostra fragilità. Ed è proprio sulla terra che, nell’ottica di Bianchi, è possibile cercare l’eterno. Ma in un’epoca in cui la morte è costantemente rimossa o spettacolarizzata, che senso può avere la domanda sull’aldilà? Che significato possiamo ancora attribuire alla morte stessa?
Come dimostra Umberto Galimberti, l’ultima fatica dell’amico, che è stata scritta «nella solitudine dell’esilio», cerca di rispondere anche a queste domande così consumate. Abbracciando il senso del dubbio e facendo proprie le parole di Cristo, Enzo Bianchi «scalpella» l’immagine terribile del Dio della tradizione cattolica e ci consegna una densa meditazione per riflettere sul concetto dell’aldilà. Un aldilà che, proprio in virtù di quella fedeltà alla terra di cui parlava Bianchi, si dovrebbe chiamare piuttosto “al-di-qua”. La ricerca dell’eternità, infatti, diventa concreta e possibile solamente per chi, ogni giorno, mette in pratica l’amore e «crede nella vita e nel futuro degli uomini».
Del resto, anche un «greco» come Galimberti e un «monaco» come Bianchi, pur percorrendo strade diverse, ogni tanto si ritrovano allo stesso crocicchio; in quel punto in cui si incontrano l’amore per la verità e quello per il prossimo.