Uno Zio Vanja a misura di pubblico
di Anna Farina
Zio Vanja, per la regia di Roberto Valerio, con Giuseppe Cederna (Vanja) e Vanessa Gravina (Elena) è un dramma coperto di commedia, la messa in scena di sogni e di speranze di riscatto di un gruppo familiare russo che gestisce una tenuta agricola di campagna, stroncati da una pervasiva incapacità di agire. Da un lato lo spettacolo si deve confrontare con interessanti spunti di lettura del dramma čechoviano offerti dalla pellicola neo premiata agli Academy Drive my car di Ryūsuke Hamaguchi (lo stesso Cederna ha dichiarato che la visione del film ha contribuito alla messa in discussione del suo ruolo, ndr); dall’altro, specialmente oggi, si sente emergere la necessità di indugiare ancora nell’esercizio di rivelare l’umanità attraverso la lente di Čechov: i testi dell’autore russo si prestano significativamente a condurre gli spettatori dal livello del qui-ed-ora dei personaggi a uno di riflessioni universali.
La regia di Roberto Valerio ha diversi mezzi per portare tutto ciò sul palco. Dal punto di vista scenografico si nota all’apertura del sipario la decisione di realizzare una messa in scena scarna: un tavolo con le sue sedie, una credenza, una poltrona. La volontà che il pubblico noti la mancanza di altro è deliberata: lo spettacolo comincia con il dottor Astrov (Pietro Bontempo) che mima l’atto di mandare in buca una pallina in un biliardo invisibile. È grazie a questa poco invadente scenografia fissa che i punti nodali delle scene si raccolgono intorno a elementi scenografici iconici, quasi surreali, come l’altalena dove si dondola la sognante noia di Elena all’inizio e che alla fine porta “nell’aldilà” Vanja e Sonja, quasi come una mekanégreca, o il pianoforte che evoca uno spettro di gioventù felice in Elena, o la enorme botte di vino che si erge a idolo votivo dell’alcolismo in cui si affoga l’amara indolenza dei personaggi.
Si può dire che ciò si inserisca in una generale decisione di mantenere la regia lontana da un eccessivo naturalismo. Anzi, si può notare un interessante gioco tra naturalismo e sua interruzione, sia nelle tensioni manieristiche che talvolta raggiunge la recitazione emotiva degli attori, sia nelle incursioni circensi. Nello spettacolo si svolge infatti un filo sottile di buffonesche sovversioni del realismo: danze alcoliche, un utilizzo fuori dall’ordinario di elementi di arredamento come il tavolo e le sedie, che talvolta smettono di essere utili per mangiare e sedersi e lo diventano per fare l’amore o parlare salendoci in piedi, e ancora le verticali e i salti di Vanja. Ciò costruisce l’efficace contrasto del teatro della vita dei personaggi affaccendati con la totale inazione che nel testo di Čechov vive dietro a queste parole. Alla fine di questo Zio Vanja risulta chiaro come scegliere cosa fare di un testo, che con una forse eccessiva semplificazione matematica è solo un quarto della messa in scena, sia sempre possibile: il ben noto monologo di Sonja che chiude il dramma invoca il riposo eterno, la pietà di Dio, vuole riporre la fatica di un lavoro monotono e di grandi amori frustrati nella Fede. Ma i personaggi, alla fine, non giungono davvero a questa «disperazione calma», per dirla con Sereni: le potenti parole lanciate da una giovane e ottima Mimosa Campironi, sospesa sull’altalena, sconvolgono tutto il lavorio di bilanciamenti precari tra euforie e disperazioni che attraversano la messa in scena. Certamente l’operazione registica misurata, con il giusto ammontare di contemporaneizzazione del canone, mantiene un contatto stretto con il tipo di spettatori il cui gusto si prefigge di incontrare, ed effettivamente questo è il pubblico entusiasta che si vede in sala.