Tante parti fanno un tutto. Intervista ad Alberto Boubakar Malanchino.
di Anna Farina
SID – Fin qui tutto bene è una cascata di frammenti della storia di un ragazzo italiano di origine algerina che vive in una qualsiasi periferia dell’Occidente. Il monologo, che presenta un personaggio sfaccettato fino al parossismo, getta sul pubblico riflessioni inevitabili sulla società e sulla composizione dell’Io in un mondo disgregato. Ho potuto parlare della costruzione dello spettacolo e del ruolo di Sid con il suo interprete, Alberto Boubakar Malanchino.
La storia di Sid si apre con la dichiarazione di non stare più recitando alcuna parte. Com’è stato entrare in un personaggio che teatralizza la sua vita per sopravvivere nella “società dello spettacolo” e contemporaneamente si smaschera un pezzo alla volta?
C’è voluta una buona dose di incoscienza, non per ciò che riguarda l’analisi del carattere, ma per la sua restituzione. Sid è una persona molto intelligente, scaltra, ma nello stesso tempo ha l’approccio acerbo nei confronti della vita tipico di un ragazzino. Questa è stata la chiave per riuscire a creare un personaggio che in qualche modo fosse sé stesso, ma anche altro da sé. Non a caso ho trovato il personaggio di Sid molto pirandelliano, per il suo portare molteplici maschere delle quali si libera lentamente. Non si capisce, fino all’ultimo, quale parte di lui e di ciò che racconta sia reale e quale finta: così ci fa chiedere se abbia senso dividere una dall’altra.
Come si è strutturato il lavoro con il regista e drammaturgo Girolamo Lucania?
Con Girolamo abbiamo strutturato il lavoro coinvolgendo da subito i due musicisti, Ivan Bert e Max Magaldi, che insieme hanno creato il tratteggio sonoro dello spettacolo. Quando parlo di SID – Fin qui tutto bene, sebbene sia un monologo, lo reputo un dialogo a tre, dove io ho una partitura verbale, loro musicale. Insieme abbiamo costruito pezzo per pezzo la struttura della messinscena: il modo di porsi, di parlare, di rompere le frasi e gli schemi, grazie alla complicità della musica. Interessanti sono state poi le interruzioni dei momenti attivi di prova per capire cosa funzionasse del testo, apportando anche esperienze di vita diretta. In questo Girolamo ha proposto al gruppo una linea orizzontale, che ci consentisse di fare nostra la drammaturgia nel senso più profondo, mantenendo, ovviamente, la responsabilità e la briga di indirizzarci nel lavoro.
Approfondendo proprio il dialogo con la musica dal vivo, com’è stato incarnare i cambi di ritmo e registro che rendono il monologo così intenso e movimentato nello sviluppare gli snodi narrativi?
Con Girolamo si parlava di momenti in cui si doveva prendere respiro maggiore e altri in cui ci doveva essere una frenesia del personaggio rispetto a dei temi che trattava o citava. Nel dettaglio delle singole frasi, ho avuto la libertà di spaziare, giocare con la parola, partendo dal presupposto che la tecnica non dovesse mangiare la verità di quello che si stava dicendo. È stata la psicologia di Sid a regalarmi questo modo di pormi rispetto alle possibilità espressive e alla ricerca di senso. Potrei descrivere lo sforzo fisico e mentale di questo lavoro come quello di andare in palestra, di aggiungere un disco dopo l’altro per essere investito da un carico troppo pesante in un colpo solo. È stato un processo di aggiunta costante e graduale nel lavoro e nelle prove che hanno poi prodotto lo spettacolo.
Holderlin, Platone, Mozart, solo per citarne alcuni: i maestri di cui Sid si inebria, e forse una riverenza per il modello, contribuiscono a rendere così dolorosa la ricerca della propria identità?
Solo se diventa una malattia. Nel nostro ambiente, quello teatrale, abbiamo avuto dei padri importanti nel Novecento, basti pensare ai due di “casa nostra”, Strehler e Ronconi. Oggi mi sento di dire che, soprattutto nel contesto italiano, di padri ce ne sono pochi, forse ci sono degli zii, dei fratelli e delle sorelle. Oggi la ricerca smodata di avere dei modelli di riferimento può far diventare molto frustrante un percorso artistico. Se invece si accetta di vivere la propria quotidianità e di giocare all’interno di una società che dà altri paradigmi rispetto a quelli che si vorrebbero, allora possono nascere dei risultati interessanti rispetto alla propria ricerca.
Com’è stato passare dal debutto al Torino Fringe Festival al palco della Sala A del Teatro Franco Parenti, che ultimamente sta ospitando esperimenti monologici davvero interessanti?
Dopo un percorso iniziato pochi mesi fa e che ha avuto subito risultati positivi, è stato emozionante avere la possibilità di essere ospitati in un teatro come il Parenti: non è scontato restituire un simile monologo nel cuore di una città come Milano, che ha una periferia molto importante. È bello portare e curare questo tipo di spettacoli di ricerca in un contesto teatrale protetto, a cui far accedere anche chi di solito non frequenta le sale. Allo stesso tempo, può stimolare la riflessione sull’importanza di far uscire questi lavori direttamente nelle piazze e nelle periferie.