di Katharina Volckmer
© Éditions Grasset & Fasquelle, 2021
traduzione italiana Chiara Spaziani
pubblicata da © La nave di Teseo editore, 2021
adattamento Fabio Cherstich, Katharina Volckmer
da un’idea di Andrée Ruth Shammah
regia, spazio scenico Fabio Cherstich
con Marta Pizzigallo
e con Riccardo Centimeri e Francesco Maisetti
luci Oscar Frosio
musiche originali Luca Maria Baldini
assistente alla regia Diletta Ferruzzi
macchinista Marco Pirola
fonico Emanuele Martina
elettricista Luca Asioli
sarto Giacomo Pietro Viganò
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
si ringrazia Artemide per la luce, nel ricordo di Ernesto Gismondi
produzione Teatro Franco Parenti
Rolling Stone
Dopo il successo al Festival di Spoleto, arriva sul palco del Parenti l’audace e potente spettacolo di Fabio Cherstich, tratto dal bestseller d’esordio della scrittrice tedesca Katharina Volckmer.
Domina la scena Marta Pizzigallo che racconta, con voce e corpo, il disagio emotivo ed esistenziale di un personaggio prigioniero degli schemi di una società bigotta e conservatrice, intrappolata dai troppi retaggi culturali.
Un flusso di coscienza torrenziale e provocatorio, ma anche atrocemente divertente e lucido, che passa dalla confessione di fantasie sessuali legate a Hitler e al nazismo alla descrizione di incontri di sesso occasionale, dalla deplorazione della pessima cucina tedesca all’impossibilità di sentirsi a proprio agio in un corpo di donna. In scena la solitudine umana, un coming out autentico, delirante e di grande intensità che tiene incollato il pubblico.
Emilia Costantini - Corriere della Sera
Nata in Germania nel 1987, Katharina Volckmer ha scritto e pubblicato in inglese. A tal proposito afferma: «Mi ha permesso di prendermi più libertà. Anche Freud se doveva dire qualcosa di sconveniente usava il francese».
Torrenziale, provocatorio, a tratti insopportabile ma anche atrocemente divertente, lucido e delirante allo stesso tempo, un testo che passa dalla confessione di fantasie sessuali legate a Hitler e al nazismo, alla descrizione di incontri di sesso occasionale nei bagni pubblici, dalla deplorazione della pessima cucina tedesca all’impossibilità di sentirsi a proprio agio in un corpo di donna.
Un cazzo ebreo è un monologo sull’identità tutt’altro che consolatorio: la voce narrante non sa dove sta andando, non segue un arco che dall’autocoscienza la porterà a un lieto fine, a un dipanamento del suo groviglio. Sa solo che deve continuare a frantumare, a fare a pezzi sempre più piccoli la propria identità di femmina e di tedesca. Sia Volckmer che il suo personaggio hanno una sola priorità: rompere il silenzio. E il silenzio dell’analista è il muro contro cui testardamente, dolorosamente, la protagonista continua a sbattere la testa.
Quella che i tedeschi chiamano Vergangenheitsbewältigung (“superamento del passato”) si è trasformata in un vuoto plumbeo: il passato nazista è stato semplicemente rimosso in nome di un antirazzismo untuoso e di facciata che smussa o nega qualunque differenza: «trenta bambini tedeschi e neanche un ebreo in lontananza», ricorda la protagonista, «e noi cantavamo in ebraico per assicurarci di restare de-nazificati e profondamente riguardosi. Ma non siamo mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi – istericamente non razzisti in qualunque circostanza, e pronti a negare qualsiasi differenza. (…) Eppure non abbiamo mai restituito agli ebrei lo status di esseri umani né abbiamo permesso che interferissero con la nostra interpretazione della storia, fino ad arrivare a quel triste cumulo di pietre che è stato messo a Berlino a commemorare l’Olocausto».
La messa in discussione della propria appartenenza alla cultura tedesca diventa anche una radicale messa in discussione del proprio essere nata femmina: «una volta imparato a pensare con la mia testa, ho cominciato ad andare nei bagni dei maschi», spiega all’analista. E il cesso pubblico diventa per lei, in un comico ribaltamento delle polemiche statunitensi sull’utilizzo dei bagni femminili per le persone trans, un luogo di scoperta di sé.
Il regista Fabio Cherstich ha creato lo spettacolo con la collaborazione della stessa Katharina Volckmer: «la donna e il dottor Seligman sono all’interno di uno spazio mentale» spiega nelle sue note di regia: «non lo studio di un medico ma un dispositivo visivo in cui attraverso l’utilizzo di lenti traslucide, vetri opalescenti, filtri fotografici, il corpo della protagonista e la sua immagine appaiono al pubblico in una forma mutevole e continuamente trasformabile, fluida e misteriosa».
Cherstich quindi, alla dimensione della parola ha aggiunto quella visiva, per rendere plastica l’esigenza della protagonista di trasformarsi, di diventare altro da sé, di lasciarsi alle spalle quella che era. Ha in mente l’arte sporca, umorale e confessionale dell’artista britannica Tracey Emin, il cui flusso di coscienza visivo è costellato di Kleenex appallottolati, di letti disfatti, di preservativi usati, di scarabocchi fatti soprappensiero. O le performance medico-rituali dell’artista francese ORLAN, che ha fatto della chirurgia estetica estrema la sua poetica.
Cherstich non vuole solo farci sentire la voce della protagonista ma vuole anche farci vedere cosa si sta affastellando e formando nella sua immaginazione: ci chiede di diventare testimoni di un processo di distruzione di sé che è anche un inno alla complessità e alla fluidità di quello che siamo, di quello che potremmo osare essere e di quello che saremo: «Facciamoci oro, dottor Seligman. Cambiamo forma nei secoli, ma senza scomparire».
Fabio Cherstich è regista e scenografo di Teatro e Opera. Ha lavorato in numerosi teatri italiani ed esteri, tra cui il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, il Teatro Massimo di Palermo, il Teatro dell’Opera di Roma, Auditorium Parco della Musica di Roma, Opera d’Avignon, Opera de Marseille, Theatre Maillon de Strasburg, Teatro Argentina di Roma. È l’ideatore e regista del progetto di opera on the road Operacamion definito dal New York Times come «un progetto unico e capace di riportare l’opera alle sue origini». Nel suo lavoro convergono la passione per l’arte visiva, il design e i linguaggi artistici contemporanei. Dal 2012 collabora con Andrée Ruth Shammah al Teatro Franco Parenti di Milano e insegna estetica e storia della regia contemporanea alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, alla Scuola di Cinema di Milano e alla Libera Università di Comunicazione IULM.
Marta Pizzigallo, pugliese di nascita, milanese d’adozione, si trasferisce a Bologna a 19 anni per frequentare la Scuola di teatro di Bologna diretta da Alessandra Galante Garrone, dove poi si diploma come attrice di prosa nel 2006. Negli anni ha lavorato in teatro diretta più volte da Gabriele Lavia, Antonio Latella, Arturo Cirillo, Serena Sinigaglia, Elena Bucci, Marco Sgrosso, Mario Perrotta; tra gli altri per il Piccolo Teatro di Milano, la Compagnia Umberto Orsini, la Compagnia Atopos e con il Teatro dell’Elfo nelle regie di Elio De Capitani, Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Nel 2013 vince il Premio Hystrio alla vocazione ed è finalista ai premi Ubu 2014 come miglior attrice under 35. In televisione è nel cast della prima e della seconda stagione della serie La Compagnia del Cigno di Ivan Cotroneo e in Noi (adattamento italiano della serie tv This is us) con la regia di Luca Ribuoli per Rai1; al cinema nel film Tutti i nostri ieri di Andrea Papini di prossima uscita.