Sik-Sik. Pinter non fa ridere, intervista a Dario Aita e Giuseppe Scoditti.

14 Marzo 2025
Roberto Rustioni, regista dello spettacolo Il calapranzicon i due protagonisti Dario Aita e Giuseppe Scoditti

Pinter non fa ridere, intervista a Dario Aita e Giuseppe Scoditti.
di Chiara Narciso

Perché Harold Pinter fa così ridere? Non c’è nulla di comico, se non l’amarezza dello spettatore di riconoscersi nella contemporaneità di schemi predefiniti e sociali in cui si trova incastrato, rintracciabili negli scritti del premio Nobel di oltre sessanta anni fa. Un seminterrato adibito a una camera da letto fa da sfondo all’intensificarsi della tensione, mentre uno dei protagonisti, il montacarichi attraverso il quale i due killer comunicano con un ipotetico mandante, rimane in secondo piano rivelandosi nel corso dell’atto unico. Gli interpreti si approcciano ogni sera alla messa in scena de Il calapranzi per fare da lente di ingrandimento su tutto ciò che l’autore britannico lascia di non detto, oltre le battute e le singole parole che compongono l’atto unico. Dario Aita e Giuseppe Scoditti, diretti da Roberto Rustioni nei ruoli rispettivamente di Ben e Gus, ci hanno raccontato il lavoro sulla costruzione dei loro personaggi.

Come avete approcciato la caratterizzazione delle maschere contemporanee ideate da Pinter?

D. A. : La prima cosa che ci siamo detti con Roberto Rustioni è proprio che questi personaggi sembrano quasi dei clown che hanno esaurito il proprio numero. Per iniziare a caratterizzare i due siamo partiti proprio dall’approccio alla dinamica di coppia di Pinter, che strizza anche un po’ l’occhio al cinema dall’epoca del muto in poi. La resa comica sta proprio nell’avere una definizione tragica dell’azione insieme a due protagonisti incapaci di affrontare la situazione. Per questo il mio lavoro è stato anche condizionato da quello di Giuseppe, è stata una costruzione di coppia in cui abbiamo cercato di svincolarci da quello che il testo o la sua storia performativa più comunemente suggerivano, cercando di rintracciare soluzioni ambigue in cui i ruoli trovassero il modo di essere intercambiabili.

G. S. : Io credo che il lavoro di caratterizzazione dei personaggi sia stato legato anche all’inevitabile essere noi maschere in quanto corpo attoriale, con le nostre caratteristiche fisiche e comportamentali differenti. Merito di Rustioni che già dal casting ha posto le basi per l’evoluzione che portiamo in scena. Oltre alla relazione e agli eventi inseriti nella drammaturgia, sono anche i nostri corpi a dialogare, il mio più alto e impacciato, il suo (ndr di Dario Aita) più minuto e potente.

Pinter lavora molto su ciò che non è esplicito, su quello che traspare tra le righe: quanto il lavoro sul corpo e sulla caratterizzazione fisica del personaggio è fondamentale per favorire la comprensione dello spettatore?

G. S. : Io ho lavorato molto sull’esterno, sul guardarmi intorno, studiando tutto quello che vedo, concretamente odorando o toccando gli oggetti. Abbiamo paragonato Gus un po’ a un gatto, un curiosone, uno che vuole capire, scoprire, in opposizione alla chiusura su cui ha lavorato Dario.

D. A. : Sì, io ho lavorato sulla rigidità e sulla precisione ed esattezza dei movimenti, anche perché nella parte iniziale sono molto spesso seduto su un letto a leggere il giornale. Era abbastanza faticoso non cedere a una pigrizia del corpo. Però il sentimento della paura, preponderante all’interno del racconto, fa sì che anche in Ben ci sia qualcosa di felino, per cui è come se dovesse restare sempre all’erta anche se finge rilassatezza, freddezza e sufficienza.

G. S. : Ben, in fondo, prova più paura di Gus secondo me. All’inizio potrebbe sembrare il contrario, invece poi è interessante vedere questo ribaltamento.

D. A. : Ben, infatti, non avrebbe il coraggio di farsi le domande che si fa Gus. Anche quest’ultimo non sappiamo se le fa più per coraggio o per ingenuità.

Cosa vi ha suscitato approcciarvi all’ironia amara di Pinter?

G. S. : Per me da dentro non fa assolutamente ridere, né questo è l’obiettivo che ho da attore in questo contesto. Tantissime volte mentre provavo con Dario dicevo: ma perché questa cosa dovrebbe far ridere? Forse venendo anche dal mondo della comicità non mi aspettavo che l’approccio ironico pinteriano funzionasse in questo senso. Invece ci sono delle serate in cui il pubblico partecipa molto, attraverso questa ironia quasi nervosa, di incomprensione.

D. A. : Secondo me Pinter ha uno sguardo di commiserazione sugli esseri umani. Viviamo in un mondo abbastanza ridicolo, siamo costretti dentro delle circostanze che in qualche modo sono imposte dall’alto, dalle quali sembra di non poter sfuggire. Questo destino di ineluttabilità, osservato da una certa distanza può assumere delle sfaccettature ridicole a volte, per quanto sia triste. Poi il testo sembra volerci dire che abbiamo una possibilità di scelta a un certo punto, c’è la possibilità di autodeterminarsi in un momento preciso della nostra vita, ma senza dare una risposta concreta e conclusiva.

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